
Universo Copernicano (1576)
Dopo avere veduto insieme che esistono i concetti di Anicca ed Anatta, rispettivamente l’impermanenza e la mancanza di sé che, ricordiamolo ancora una volta, significano che tutto muta costantemente e che tutto ciò che esiste lo fa in virtù delle parti che le compongono e non perché sia davvero intrinsecamente qualcosa, siamo arrivati ad un grande interrogativo, lasciato in sospeso alla fine del precedente articolo. Volutamente.
Se tutto è uno, se io sono composto da parti e se in me si riflette la storia di tutto l’universo, allora quale senso potrà mai avere l’agire eticamente? La risposta è che, da questo punto di vista, non ne ha proprio nessuno. Terribile? No. Tutto è materia che si trasforma, bene e male, giusto e sbagliato perdono il loro significato. Una persona cattiva muore ed il suo corpo diventa concime per i fiori che vengono mangiati da un cervo che viene ucciso da un lupo che calpesta una farfalla. Dove è giusto è dove è sbagliato? Materia che si trasforma e che a volte lascia apparire una coscienza, per un poco. Poi tutto si ripete, in altri luoghi, in altre forme, mentre l’universo intero non fa che pulsare, vivere, trasformarsi. Dove è giusto è dove è sbagliato? E chi sono io se non un brillare d’occhi lungo un istante, nella danza del Tutto?
Ma questo è solo uno dei due punti di vista. L’altro, determinante, è quello di me come essere vivente. Capisco il piacere ed il dolore e capisco che devo agire eticamente perché riconosco che il dolore è qualcosa da evitare. Scelgo di fare in modo che anche gli altri esseri senzienti lo provino il meno possibile e regolo di conseguenza il mio agire. Mi comporto come se il tutto non esistesse. Agisco come se bene e male, giusto e sbagliato avessero una importanza assoluta e, dal mio punto di vista, quello di un essere vivente, questi aspetti hanno davvero importanza assoluta.
Il problema è che entrambe queste filosofie sono egualmente valide, ma per noi è piuttosto “complicato” riuscire ad abbracciare in modo intuitivo due visioni così diverse. Comprenderne la contemporanea verità è la via di mezzo. Afferrare con un solo atto istintivo della mente entrambe queste realtà significa riuscire nella ricerca dell’illuminazione, questo almeno da un punto di vista buddhista.
Ma se per comprendere appieno il primo punto di vista sulla realtà, me come individuo, non devo fare assolutamente alcuno sforzo, visto che si tratta della mia normale condizione, cosa posso invece fare per avere la possibilità di fare esperienza del tutto come uno?
E’ proprio qui che la meditazione ci regala il suo aiuto. Nella vita di tutti i giorni, noi come individui, ci affanniamo costantemente a decidere cosa è giusto o sbagliato, cosa ci piace o non ci piace, cosa sognare o temere. Il nostro pensiero è attivissimo e compie una azione fondamentale per la nostra esistenza: discrimina. La prima è più importante discriminazione è però tra noi, soggetto, e ciò che invece desideriamo o rifiutiamo, l’oggetto. Tutto è diviso, scisso, non vi è nessuna unità: noi siamo rinchiusi al sicuro all’interno del nostro corpo, il resto è fuori, pronto a divenire oggetto dei nostri pensieri.
Nella meditazione il pensiero si placa, non c’è alcun bisogno di emettere giudizi e di distinguere, siamo semplicemente seduti. Non dobbiamo fare nulla ed il nostro pensiero solitamente rumoroso ed implacabile può smettere, finalmente, di agitarsi. La mente, se adeguatamente educata, può abbracciare tutta quanta la realtà e divenirne parte essa stessa. Non esiste più la dualità, non esistono più un soggetto ed un oggetto: mi fondo con il tutto ed in realtà mi accorgo che io ed il tutto non siamo mai esistiti,
Se vi sembra facile, vi state sbagliando. La prossima volta, finalmente, parleremo della pratica meditativa 🙂